La Medicina è Una, quella che guarisce
di Daniela Salvucci
Delegato regionale APO Marche
Questo scritto nasce dal bisogno di rispondere all'articolo, a firma della Presidente della FIAMO, dal titolo: "Competenza ed onestà, principi guida per l'operato dell'omeopata" (Il Medico Omeopata, XII: 34, aprile 2007; contiene la risposta della dr.ssa Antonella Ronchi alla lettera inviata dalla dr.ssa Simonetta Bernardini alla Presidente dell'APO Italia).
E' una necessità che scaturisce da un'osservazione. In quanto paziente di questa stupenda arte del guarire ho notato che, proprio in quel mondo dove la similitudine dovrebbe essere alla base della visione della vita e dove tra medici dovrebbe esserci un senso di similarità, un confronto su cui ampliare le conoscenze, c'è, invece, uno scontro in nome della cosiddetta Omeopatia: ognuno ha la sua, si denigra ora questo ora quel metodo, non pensando al paziente ma solo all'affermazione delle proprie personali idee.
Ho deciso di scrivere questa lettera in quanto, come delegata dell'APO (Associazione Pazienti Omeopatici) della regione Marche, sento vivo il bisogno di tutelare i pazienti. La mia storia è simile a quella di tanti altri pazienti che hanno deciso di curarsi con la medicina omeopatica; non solo perché sfiduciati dai risultati ottenuti con la Medicina tradizionale, ma soprattutto perché hanno riscontrato nel metodo di cura omeopatico il vero "prendersi cura" della persona. Da delegata dell'APO, in tutti questi anni ho organizzato convegni, conferenze, tavole rotonde, seminari, sempre per promuovere la diffusione della conoscenza della medicina omeopatica; ed ho notato che nel mondo medico omeopatico, in nome dell'Omeopatia, ognuno cerca di "far valere" solo la propria metodologia, piuttosto che apportare integrazioni per il bene comune - intendendo per bene anche ciò che Hahnemann dice nel paragrafo 3 dell'Organon.
Finché il mondo medico omeopatico non effettuerà su di sé un'anamnesi della propria patologia, che in termini miasmatici (tanto per rifarsi al linguaggio omeopatico) definirei sicotico-sifilitica, non ci sarà, secondo me, quella verità su cui basare la lotta per il riconoscimento della "nostra Medicina" da parte delle Istituzioni. Non ci sono le omeopatie come, erroneamente, le ha chiamate il prof. Aiuti nell'incredibile trasmissione di Piero Angela in un SuperQuark di qualche anno fa; ma, per assurdo e per "assurda ironia", il mondo medico omeopatico le sta definendo proprio così!
La ragione fondamentale che mi porta a fare alcune riflessioni è che tutta questa vostra diversità non dà molta sicurezza; anzi, devo dire che il paziente inizia ad avere sfiducia anche nel proprio medico omeopatico perché, quando sta male e si rivolge a lui, a volte si sente addirittura rimproverare di non essere un "bravo paziente"; infatti, se il risultato non viene o magari tarda a venire, non è mai a causa del rimedio non adatto al caso (il collega può sbagliare, ma lui no!), ma del paziente stesso!
Recentemente ho letto la presentazione della dr.ssa Simonetta Bernardini, al libro di Toby Murcott [1] "La Salute prima di tutto" e, devo dire, che ho trovato importantissimi alcuni passaggi, in quanto spiegano perfettamente i motivi delle difficoltà che noi, "popolo dei granuli", incontriamo nel nostro percorso alla ricerca della guarigione, quando siamo ammalati.
Partendo dalla frase, ripresa dalla presentazione della Bernardini, "le medicine complementari si fondano su un paradigma differente da quello della medicina classica e i due paradigmi sono, tra loro, incommensurabili", trovo che è proprio questa la difficoltà maggiore che il paziente incontra quando si fida unicamente della medicina omeopatica. Il medico omeopatico (di solito l'unicista) non ammette in alcun modo che ci possa essere un confronto con la Medicina accademica, né una integrazione; io penso, invece, che proprio per questa diversità fondamentale, il medico "formato" sul principio hahnemanniano potrebbe, avvalendosi di un mezzo in più, integrarsi con l'altra Medicina. Integrarsi non vuol dire snaturare la Medicina omeopatica, ma servirsi di tutti gli strumenti a disposizione per il bene del paziente.
La medica classica si basa sul modello meccanicistico ed i farmaci che questa Medicina utilizza mirano alla risoluzione del "caso clinico" contrastando la "malattia"; la medicina omeopatica, invece, fonda il suo principio su un paradigma del tutto differente: colloca il potenziale di azione del rimedio omeopatico sulla sollecitazione dell'organismo, così da operare l'auto-guarigione; da qui la sostanziale differenza tra le due: l'una "anti", l'altra "omeo". Una dichiarazione esplicativa di questa osservazione la si può trovare in un documento del prof. Paolo Bellavite [2] dal titolo: "Le patologie curabili in omeopatia e la medicina integrata". Riporto un passaggio del testo, molto significativo: "Tutto ciò, non al fine di curare insieme con allopatia e omeopatia, ma per ragionare nel vero interesse del paziente se fare una terapia omeopatica o allopatica, in quale caso e per quanto tempo. Non escluderei, comunque, che qualche volta e sotto opportune condizioni di verifica e monitoraggio, si possano associare o alternare le due terapie. La medicina (qualsiasi medicina) è scienza ed è arte, entrambe le componenti sono co-essenziali". Infatti, capita spesso che noi pazienti ci sentiamo sballottati tra i vari orientamenti, ciascuno dei quali afferma di possedere la verità assoluta, si tratti della Medicina accademica oppure di quella omeopatica; ma lo scontro esiste anche tra gli esperti di quest'ultima. L'ostacolo più grande a cui va incontro il paziente omeopatico, quindi, non è solo il capire se fa bene a scegliere di continuare a curarsi con questa Medicina, ma se è giusto o meno integrare le due discipline, ai fini della guarigione.
Voglio riportare un ulteriore passaggio tratto sempre dalla presentazione della Bernardini: "Non v'è dubbio, i due paradigmi non sono paragonabili. Se a questa differenza portante non si trova rimedio, i medici cultori della medicina classica e i medici esperti nelle medicine complementari sono condannati a parlare due lingue diverse e i medici che praticano insieme la medicina classica e quella complementare, ovvero tutti i medici che praticano la medicina integrata, devono prepararsi ad essere bilingue come ha di recente scritto il Prof. Andrea Dei [3] in un articolo, pubblicato online, per la rivista italiana di medicina omeopatica "Omeopatia33".
Con ciò voglio sottolineare, anche se da semplice paziente, che "competenza ed onestà" del medico richiederebbero un dialogo tra i cultori della Medicina omeopatica e quelli della Medicina accademica, in modo da intraprendere un cammino in cui il malato non si senta più né "in colpa", quando continua a star male, né, tanto meno, "da solo". Dico questo, in riferimento al fatto che se il rimedio, per un errore di prescrizione, o forse per mancanza di forza vitale da parte del paziente, non è stato capace di risolvere il caso, l'omeopata (spesso l'unicista) non imputi la responsabilità di ciò al paziente, lasciandolo "solo" nella malattia, scaricandolo e lasciandolo in balia di se stesso alla mercè del primo medico allopatico che è costretto, data l'urgenza, a consultare - e questo posso assicurarlo sia per esperienza diretta sia per quanto riferitomi da molti pazienti.
Mi rendo conto, per essere da tantissimi anni una paziente omeopatica, che saper individuare il rimedio perfettamente corrispondente ad ogni malato, di primo acchito, è molto, ma molto difficile; per cui il paziente, scoraggiato dai numerosi tentativi, sovente dopo un po' di tempo abbandona questo metodo di cura. Ma anche se ciò dovesse avvenire, nel senso che il medico individua il rimedio adatto, è ben noto a tutti che spesso si verifica nel soggetto un ritorno di sintomi - un aggravamento iniziale, segno questo positivo ai fini della guarigione ma, talvolta, così forte da scoraggiare il paziente il quale, spesso, abbandona la cura perché incapace di sopportare il peggioramento sintomatologico. A questo punto l'omeopata, che prima di tutto è un medico laureato in Medicina e Chirurgia, dovrebbe essere in grado di prendersi, con umiltà, la responsabilità del malato e, se necessario, prescrivere lui stesso il farmaco allopatico più adatto per il problema del suo paziente, onde evitare che questi, non tollerando le forti sofferenze iniziali, abbandoni la cura. Ed è ancor meno tollerabile, magari dopo un lungo iter di cura nella speranza di poter guarire il suo paziente, che il medico, resosi conto che non solo la guarigione non arriva ma le sue condizioni peggiorano, lo scarichi, lasciandolo in balia di se stesso; con il rischio che quest'ultimo capiti nelle mani di un medico allopatico il quale, tra l'altro, vedendolo per la prima volta, e non conoscendo nè la sua storia clinica nè la sua reazione ai farmaci allopatici, gli prescriverà la dose che a suo parere è giusta, ma solo per un soggetto abituato ad assumerli. La reazione del paziente, invece, potrebbe essere elevata trovando, i farmaci, un organismo per niente intossicato.
Il medico omeopatico ben conosce sia i rischi della "soppressione omeopatica" sia quelli del "farmaco allopatico"; per questo, chi meglio di lui potrebbe prescrivere in caso di necessità il medicinale allopatico, "dosandolo" con coscienza, visto che conosce perfettamente le due discipline, quella classica e quella omeopatica? Ciò non vuol dire tradire l'Omeopatia, anche perché i due metodi agiscono su livelli diversi; ma solo permettere alla seconda di agire in profondità, facendo superare al paziente, con la prima, i fastidi iniziali.
Ecco cosa si intende per medicina complementare ed integrata!
Cosi facendo c'è la possibilità, per il paziente che crede nella medicina omeopatica, di recuperare la sua salute. In tal modo egli potrà camminare, insieme al suo medico omeopatico, verso la guarigione. Mi domando, quante volte abbiamo dovuto fare da soli! E quel famoso "prendersi cura", che per voi è alla base della Medicina, si è trasformato per noi in una grande difficoltà, perché "ogni omeopata ha il suo metodo". A nome dei pazienti che rappresento, chiedo al mondo medico omeopatico se non sia giunta l'ora di affrontare seriamente l'opportunità di "condividere" con le differenti discipline la similitudine, trasformandola in una opportunità di cui il paziente potrebbe avvantaggiarsi sempre, onde evitare che, se abbandonato nel momento di maggior bisogno, abbandoni a sua volta l'Omeopatia. Attuando ciò, oltre ad avere la possibilità di affermare "tutti insieme" che la Medicina è UNA, cioè "quella che guarisce", anche le Istituzioni sarebbero più aperte ad un riconoscimento e la cosiddetta "Medicina integrata" non sarebbe un termine da escludere a priori; al contrario, potrebbe rappresentare il collante necessario per arrivare alla vera cura da parte delle medicina tutta.
Per concludere è auspicabile, ed i tempi sembrano abbastanza maturi, che sia introdotto nelle Università italiane un insegnamento regolare di Medicina omeopatica, in modo che lo studente possa assimilare, fin dal primo anno di corso, il paradigma di questa Medicina per comprenderne fino in fondo la validità.
Daniela Salvucci