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ESPERIENZE
Dal profondo del cuore delle Dolomiti
Non sempre, non solo, di pietra
Autore: Maria Cristina Garofalo

Entrare nel ventre della Grande Madre, come Giona e Pinocchio in quello della balena. Entrarci per gioco – anche pericoloso – ed essere catapultati in uno spazio senza tempo, in cui tutto è amnioticamente attutito dall’assenza di luce. Non di colore.

Il piccolo led della frontale basta a rischiarare l’arancio inconfondibile di questo calcare. Qui non è stratificato e sbriciolato come all’esterno. Protetto dall’atmosfera, è viscido, compatto, solido, immutabile.

Solo le tante mine e cariche di tritolo, che, all’inizio del secolo scorso, qui hanno brillato per aprire un varco di conquista, ne hanno avuto ragione. Così tanto da cambiare il profilo esterno della Tofana; così violentemente da renderla inavvicinabile, per frane continue, per tanti giorni; così potentemente da scagliare, rigurgitare, i massi fino al Lagazuoi.

Lungo i ghiaioni di avvicinamento, c’è ancora eccesso di memorie d’armi; di eserciti che prima ancora che dal nemico umano, dovevano, paradossalmente uniti, difendersi, confrontarsi, trovare strategie di sopravvivenza minima, in un ambiente severo, estremo, adatto ad ospitar camosci, aquile e marmotte. Mai uomini, neppure in guerra.

La Grande Madre, oggi, attende, come sempre indifferente, indenne e inconsapevolmente protettiva, che si entri in Lei, per un vezzo da ricchi e sciocchi turisti, o da amanti che vogliono coglierne l’antico e perenne alito vitale.

La prima volta, appena varcato il confine fra luce e ombra, per automatismo ancestrale e religioso, compi l’umile gesto di affidarLe il respiro. Riconosci la Sua grandezza ottenendo in cambio un alito regolare per vincere la notte.

La vista abbandona bruscamente scenari blu, verdi, rosa, e tenta un adattamento circospetto. Il tatto diventa guida; torna l’olfatto che spinge in gola l’umidità avvolgente, la sospensione di odori.

Eppure. al Castelletto, ci vivevano uomini. Avevano guadagnato la galleria alla montagna, forzandone l’andatura. Li ha difesi finché ha potuto, poi, altri, con lo stesso freddo, la stessa paura, l’identica inconsapevolezza innocente, l’hanno fatta crollare.

Le imparziali e tecniche scalette di ferro, e comodissimi e solidi cavi d’acciaio corrimano, abbandonano ai margini del percorso i paletti e i fili spinati del ’14/’18. In pochi minuti, agevolmente, ti portan fuori dal flusso amniotico e dal tempo sospeso del tunnel.

L’irrealtà viene interrotta un Po prima dai rami morti che portano a punti di avvistamento oggi panoramici.

Al ritornare a riveder le stelle, l’immensità dello scenario naturale toglie il fiato. Il corpo abbandona i meccanismi di difesa e si lascia attraversare dalle emozioni della vista.

Poi, un pensiero inevitabile quanto banale: chissà se qualcuno di loro amava comunque queste montagne; se ancora ne riconosceva l’assoluta bellezza?

All’uscita del nido di guerra, passa un brivido, poi, sei fuori dalla Storia... se non fosse per quella colonia di corvi che incessantemente vola sulla vallata per tornar sempre e solo sulla cima del Lagazuoi.

Lì, sempre e solo lì.

Un piccolo esercito senza nazionalità, aggrappato a quelle antiche rocce, vincolato, in un infinito ciclo di rinascite, a quegli spalti da una morte prematura e irragionevole,

Finalmente godendo solo la bellezza: in volo.

NOTA: Scritto di ritorno dalle vacanze in montagna, come un “bozzetto” a caldo di un'esperienza sensoriale, assume oggi un senso diverso, maggiormente metaforico, e, purtroppo, attualmente sinistro, vista la tragedia americana, con l'uomo, la guerra, gli “strumenti di morte”, di oggi e di ieri; lo sgomento di fronte ad una pulsione di morte ancora incontrollabile. Oggi come ieri Thanatos contro Eros, l'oscurità contro il colore.





Alcune immagini:

Linea di confine

Dalla luce d'agosto all'antro del gigante. L'attuale 'comodo' ingresso al Castelletto

Parete ovest della Tofana di Rozes

Veli d'acqua sui fianchi, e il calcare si fa colore





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